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Da Hortus Musicus, ottobre-dicembre 2005, n. 24

Filosofi e vampiri, di Mario Pischedda

Esiste una rotta del pensiero che la filosofia dei nostri giorni trova sempre più stimolante e congeniale. È quella di una filosofia che, per dirla con il vecchio Pascal, deride se stessa decidendo di non prendersi sempre sul serio. Una philosophia ridens, verrebbe da definirla, in cui l'ingegno postmoderno può davvero trovare il suo humus ideale. Rientra in questa tipologia l'ultimo libro di Giuseppe Pulina, quarantaduenne filosofo sardo di cui l'editore sassarese Mediando ha recentemente dato alle stampe Minima Animalia. Un bestiario singolare che fonde e con-fonde ad arte filosofia e letteratura, definibile, se si vuole, in linea con il sottotitolo suggerito dallo stesso autore, come un saggio di critica filosofica e letteraria, pur essendo, soprattutto, un esercizio, divertente e avvincente, di metafilosofia, vale a dire - per riprendere il discorso - di quella filosofia che ama specchiarsi e burlarsi di sé.
Minima Animalia è anche una raccolta di saggi in cui viene fatto il punto sulla percezione che degli animali hanno avuto in tempi diversi filosofi, scrittori e uomini di scienza. Ai quali - eccezione fatta per alcune straordinarie figure (Nietzsche, Bruno, Melville) - l'animale è servito da cavia anche quando ne venivano tessute le lodi piùsperticate. Fallacia di un pensiero che è poi andato sclerotizzandosi nello specismo, peccato originale di una concezione dell'animalità che ha i suoi cattivi maitre a penser. Chi più del filosofo - si chiede, d'altronde, l'autore in una delle pagine più intense del libro - ha saputo trasformare i vecchi peluche in ricordi da macelllo? Alla filosofia si devono, non a caso, molti stereotipi (il coccodrillo ingenuo e piagnone, l'asino ostinatamente cocciuto, il lupo famelico e inaffidabile) che la sua autorevolezza ha contribuito ad accreditare. Difficile, perciò, rimuoverli, sempre che non si voglia ingaggiare una nuova battaglia per il riscatto della dignità animale. Un modo, se si vuole, per fare anche i conti con la cattiva coscienza di un'intera civiltà e con i suoi più o meno grandi campioni.
Procedendo oltre Saponzis e certa critica etologica, Pulina s'interroga sullo spessore semantico, simbolico e, più generalmente, culturale che le metafore dell'animalità hanno assunto in scrittori come Lewis Carroll, Leopardi, Pavese, Orwell, artisti come Chagall e Leonardo da Vinci, e filosofi come Nietzsche, Bruno e Simone Weil di cui dimostra di apprezzare la lezione. Minima Animalia solleva anche questioni di pura fenomenologia là dove l'autore si pone un quesito che, in apparenza, può sembrare provocatoriamente irriverente (e non è da escludere che lo sia veramente): "chi può dirsi certo di non aver mai confuso almeno una volta in vita sua una tigre con uno spremiagrumi? Per farlo - si legge nella breve introduzione di Minima Animalia - non occorre essere totalmente orbi. Non c'è forma più acuta di cecità dell'ordinarietà delle percezioni. Leoni e spremiagrumi sono spesso le due facce della stessa medaglia: oggetti, cose, strumenti, e il fatto che possano avere anche un'anima non aggiunge niente di nuovo alla loro confusa e indistinta identità. Il mondo, in questo caso, è molto di meno di un'ibrida rappresentazione; più che altro, è un titolo di cui vantiamo il possesso in un regime di complessa comproprietà".
Tra gli animali di cui parla Pulina e sui quali Marco Lodola costituisce con una serie di quattordici illustrazioni un suo personalissimo bestiario fanno la loro figura il leviatano di Hobbes, il serpente biblico conteso da Nietzsche e Paolo di Tarso, il coniglio di Quine, le cornacchie di Michelstaedter, l'acaro di Pascal, unità di misura dell'abisso umano, il tacchino induttivista di Russell, il pantamorfo di Bruno e i tanti esseri fantastici che popolano molte delle pagine di Borges. Uno spazio loro lo hanno anche lupi e licantropi, ai quali Pulina, riferendosi a Pavese, Bodin, Malebranche e Furio Jesi, dedica uno dei capitoli più intriganti del suo bestiario filosofico. In questo l'autore non si chiede affatto se la licantropia sia o no una questione filosoficamente rilevante. Vampiri e licantropi potrebbero pure esistere. Non sembra essere questo il punto. Il nodo cruciale è invece un altro. "Se oggi l'uomo-lupo fa meno paura di una volta è perchè - riconosciamolo - lo sguardo dell'uomo del nostro tempo non sa andare oltre le nuvole. La luce artificiale abbaglia anche i riverberi del plenilunio, i nuovi poeti non disdegnano le sonde satellitari e il mal di luna, al pari dell'emicrania, è una patologia con le carte in regola. Basta un antidepressivo per perdere la voglia di ululare alla luna e non dare ascolto al lupo, sempre più addomesticato, che latra nelle viscere". Il disincanto del mondo avrebbe così prodotto anche il saccheggio delle risorse fantastiche di cui l'uomo di oggi sempre meno dispone. E non certo per via della sua incontrovertibile trasformazione in homo technologicus, sempre meno ludens di quello di huizinghiana memoria.